© Copyright – The Queen Tribute
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Cosa hanno in comune Cesare Cremonini e Freddie Mercury? Sono due uomini e due artisti appartenenti a due epoche storiche e musicali totalmente differenti dove ritroviamo però personalità più simili di quanto possiamo immaginare. In Cesare, Freddie rivive nella gestualità e nei dialoghi maliziosi scambiati col pubblico durante i suoi show; in quelle falcate vigorose che sul palcoscenico si alternano a note delicate e parole mormorate; nelle dita sui tasti del pianoforte e nei versi di canzoni che esprimono la stessa lingua del cuore. Nei sogni difesi a suon di musica, proteggendoli dagli innumerevoli problemi che la vita sottopone.
Due esistenze legate da un filo invisibile ma tangibile che l’artista bolognese ha descritto sapientemente con la sua minuziosa arte di paroliere nell’ l’introduzione del libro biografico di Luca Garrò, pubblicato da Hoepli a novembre 2016, in una lettera-prefazione dedicata a quel Freddie tatuato sul suo avambraccio sinistro.
“Basta solo un pensiero. Chiudo gli occhi un istante e ti immagino, Farrokh Bulsara, appena compiuti i settant’anni, ben vestito, camminare a passo lento tra le strade di Londra o tra i negozi affollati di una qualche metropoli asiatica. Con o senza baffi bianchi, con lo sguardo più fragile e addolcito dal tempo crudele, ma ancora pronto ad accendersi all’improvviso e a stupirsi di fronte alla bellezza di un’opera d’arte, alla leggerezza invisibile di un vaso giapponese esposto in una galleria, o ammirando la tela di un dipinto italiano in una casa d’asta. Una carezza accennata a un gatto pronto per le fusa, un inchino regale tra le fresie di un giardino per sentirne il profumo, una parola sussurrata al tuo compagno, un’improvvisa risata. Non una ma quella risata: la tua. Celata con timidezza dietro al palmo della mano, a coprire i denti ribelli, in un attimo di pace. Basta solo un pensiero e ti posso ammirare seduto di fronte al pianoforte che hai posizionato vicino al letto, con la schiena curva e le dita allungate sui tasti, mentre accompagni con un canto angelico quel grappolo di note piovute da chissà dove, poco prima di andare a dormire.
Ti vedo appoggiare la testa sul cuscino di seta, cercando il sonno tra i cunicoli della memoria, ancora pronto ad interpretare, fino all’ultimo respiro, con gratitudine, le sfumature della vita. Se fosse vera questa mia fantasia, Freddie, non saresti cambiato.
I miei occhi si riaprono, anche se non vogliono, e continuano a cercarti intorno a me. Eccoti. Sei lì, sul mio avambraccio, dove sotto pelle ho disegnato il tuo volto regale. Certamente non avrai avuto modo di notarlo da lassù, ma il tatuaggio che porto sul mio braccio sinistro mostra il tuo sguardo intenso e fiero, mentre osservi un’ultima volta il pubblico del Wembley Stadium, accorso per ammirarti durante il Magic Tour del 1986. Migliaia e migliaia di occhi lucidi che ti osannano, estasiati, sulle note gloriose di God Save The Queen, seguendoti fino all’ultimo passo che farai su quel palco. La tua immagine con la corona e il mantello sono qui a ricordarmi ogni giorno la scelta che feci quando, ancora giovane e inesperto, promisi a me stesso di sognare in grande con la musica.
Ah già, tu non lo sai. O forse si? Quel ragazzino magro e scavato nelle guance, che ti ascoltava ad ogni ora del giorno e della notte, scartando con emozione i tuoi dischi comprati uno ad uno, impazientemente, oggi è cresciuto. È lo stesso che, ancora bambino, ossessionato dalla tua voce, chiese con presunzione alla sua insegnante di pianoforte di interrompere le noiose lezioni di solfeggio per studiare le tue canzoni. Oggi quel fanciullo divenuto uomo, ha realizzando il suo sogno più grande, quello che tu eri riuscito inconsapevolmente a iniettargli nel cuore: scrive canzoni per vivere, come lo facevi tu: seduto al pianoforte. Qualcosa di te sopravvive in ogni suo gesto, ogni parola, e ogni nota che esprime.
Caro Freddie, ogni tanto mi scopro incantato a pensare che, se tu fossi ancora qui, il mondo della musica sarebbe un posto migliore in cui vivere.
Eppure lo so che a te le faccende del music business di oggi non sarebbero piaciute: non ti ci vedo proprio con la corona arrugginita, drogato di social network, preoccupato dei like su Facebook e delle visualizzazioni poco remunerative di YouTube. Non riesco a immaginarti nei panni di una superstar con l’hobby della cosmesi e delle calzature, come fanno tanti tuoi colleghi divenuti negli anni imprenditori di professione e artisti per passatempo. Non so se avresti accettato il ruolo di “nonno del rock”, al posto di quello di “rock prostitute”, magari seduto al tavolo dei giudici di un talent show.
O peggio ancora babysitter per boyband dal pubblico incompreso e incomprensibile. Ti saresti ribellato all’idea di dover fare buon viso a cattivo gioco con il pubblico, di renderti oggetto della morbosità del gossip di oggi, affamato e cinico più che mai. Avresti protetto ancora di più la tua privacy, che per te era tutto, ripetendo che è sul palco che ci si deve mostrare, per impressionare, trascinare, farsi amare. Non tra le mura di casa. Tu che ai ragazzi e alle ragazze che riempivano i tuoi primi concerti offrivi champagne francese e “un po’ di stile”, non avresti potuto sopportare i giornalisti che come zanzare fastidiose ti avrebbero punzecchiato di domande cretine e inopportune, magari per essere stato scalzato dalle classifiche di vendita da un paio di deejay strapagati, considerati ormai come le grandi rockstar. O forse avresti provato a interagire con questo mondo in “evoluzione”, ma a quale prezzo per la tua storia? Con quale faccia?
Sai, mi capita di scuotere la testa alle volte, e come a volerti proteggere, mi ritrovo a pensare solo per un istante: meglio così, Freddie. Meglio non sapere come avresti usato Snapchat, con chi avresti collaborato nella tua lunga carriera, o quale immagine avresti scelto per promuovere le sneakers che portano il tuo nome.
Poi, questo pensiero, come tanti altri, si sgretola disturbato dal rumore di una televisione lasciata accesa per addormentarmi, o dal ticchettìo della pioggia che sbatte sul vetro della macchina, tra i clacson maleducati di una mattina frenetica di città. Si dissolve nella fretta di vivere che questo tempo che corre ci impone.
Lo spettacolo è continuato
Da lassù te ne sarai accorto. Attraversiamo un periodo straordinario e allo stesso tempo difficilissimo, quaggiù. È una canzone confusa, caotica, sentimentale ma non poetica, profonda e insieme cinica, moralista e ipocrita, quella che risuona per le strade. Ha un ritmo frenetico e inafferrabile, ma non è più rock’n’roll. Io, lo dico con un sorriso sulle guance, credo che non ti sarebbe piaciuta. Mi chiedo spesso quali parole avresti usato e quali melodie avresti cantato per questi giorni complessi. Con che rime, con che accordi, e in che tonalità li avresti interpretati? Ti è mai capito di pensare, mentre la scrivevi, che una canzone fosse troppo piccola per tenere insieme tutto quanto? A me si, e quando mi capita, so cosa ascoltare. Ciò che provo somiglia a quel groviglio di vocalizzi e gorgheggi con cui ci deliziavi a metà dei tuoi concerti, quando improvvisando liberamente con la tua voce e il pianoforte, fuoriuscivano dalla tua gola acuti angelici, irraggiungibili, lirici, che si mischiavano alle note più profonde della tua anima, a qualcosa di sensuale ed animalesco. Contrasti marcati, inusuali e originalissimi, che solo tu sapevi miscelare alla perfezione. Come vorrei anche io, allo stesso modo in cui lo facevi tu, con la tua stessa leggerezza nelle corde vocali, tenere insieme tutte quante le differenze e le unicità che incontriamo lungo il cammino. Per poterle cantare, per non sciupare nessuna sfumatura di ciò che ci è concesso provare vivendo. Dicevi spesso, a chi ti chiedeva del contenuto sentimentale di alcune tue creazioni: “Ci sono così tante sfumature dell’amore da poter raccontare…”. Come vorrei intonarmi anche io alla perfezione con tutto ciò che sento. Il rischio maggiore che corriamo tutti, senza un contatto con ciò che abbiamo dentro, è di diventare artisti, e uomini, muti.
Non ridere di me. È vero. Il tempo è passato in fretta da quando non ci sei più, ma la storia non è cambiata. Il mondo è in mano a chi si mette in gioco. E che tu ci creda o no, continui ad essere fonte di ispirazione per milioni di ragazzi che come me, provano a scalare la vetta, raccontando chi sono con la propria voce.
Nel frattempo i Queen sono diventati la realtà musicale che ha venduto più dischi nella lunga e rigogliosa storia britannica, superando ogni ostacolo, ogni moda, ogni generazione, per quarant’anni. Credo sia questo il risultato che più avresti apprezzato tra tutti quelli che hai raggiunto. Lo spettacolo è continuato.
Ora ci starebbe davvero bene una di quelle tue battute fulminanti, che ti spiazzano e ti riportano sulla terra in un secondo, unita a un corposo sorso di birra, ovviamente. E a un tiro di Silk Cut. “Pensavate di liberarvi più facilmente di noi, non è vero caro?”.
No, my dear. La verità, Freddie, è che di voci e canzoni come quelle cantate e scritte da te, oggi ce n’è più bisogno che mai. Ci manca e continuerà a mancarci la tua sensibilità, il tuo estro, e cercheremo di non perdere quel tocco di follia che abbiamo fatto nostro adorando il tuo modo di essere artista, ma non smetteremo mai di cantare le tue canzoni. Basta solo un pensiero, Freddie, e ti rivedo con l’asta e il microfono, conversare con il tuo pubblico, sfidarlo a una gara di vocalizzi. Un botta e risposta tra te e noi, riuscendo farci credere ancora, anche se per un solo secondo, di essere parte del tuo show. A tutti gli effetti, avevi già detto tutto. Qualcosa, Freddie, deve ancora accadere.
Lo spettacolo deve continuare.
Ciao Farouk. Cantante di canzoni.
Cesare”.
Giulia Gusatto